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14Feb

Guerrieri su due ruote: Soddisfazioni e Sconfitte

Le prime pedalate importanti per me iniziarono al tempo della scuola media. Siamo alla fine degli anni 90. A chiusura dell’anno scolastico con alcuni compagni formavo rumorosi gruppi di bikers pronti a prendere d’assalto le frazioni a mare dell’acese, distanti pochi chilometri da Scillichenti, il mio paese. A volte, in primavera, il  docente di educazione fisica organizzava lunghe passeggiate che ci portavano fino a Fondachello. L’aria fresca del mare e le gradevoli temperature ci facevano stare bene. Il desiderio di pedalare continuò a farsi sentire anche nel periodo delle scuole superiori, quando molti dei miei compagni si allontanarono dalla bici per inseguire il mito del motorino. Mi rimase un vecchio amico d’infanzia che come me credeva fortemente nel valore del ciclismo. Ci fissavamo delle mete a volte assai impegnative per le nostre forze. Erano da conquistare Taormina e Castelmola, che con le loro salite ci avrebbero messi a dura prova.  Ad ogni uscita aumentavano i chilometri, fino a quando, un pomeriggio estivo del 2001, varcammo per la prima volta il confine tra la provincia di Catania e quella di Messina. Fu una grande festa e i traguardi fissati e raggiunti ci spinsero ad andare sempre più lontano.  Il dito venne puntato su Messina, che era per noi come una “Capo Nord”. Pensavamo di non farcela. Tuttavia il forte desiderio di arrivarci e lo splendido panorama che viaggia lungo la costa Jonica ci spronarono ad osare. E così ci avventurammo. Durante una sosta a Roccalumera la stanchezza stava per indurci a tornare indietro. Ma poiché eravamo ormai a buon punto, lo scoraggiamento iniziale ebbe i minuti contati. Fu il fattore psicologico ad avere il sopravvento: 30 km non erano pochi, ma neanche tanti. Perché vanificare allora gli sforzi compiuti? Dai e dai, sbuffa e pedala, anche la città dello stretto venne conquistata in una caldissima mattina di agosto del 2003. Pedalammo per 160 km in andata e ritorno.

Da allora mi sono dedicato al ciclismo agonistico moltiplicando i tempi di allenamento e la fatica. Dopo una parentesi fatta di gare a circuito, ho debuttato nelle granfondo del campionato regionale ottenendo dei buoni piazzamenti in classifica e cumulando un bagaglio di esperienze che hanno segnato profondamente il mio rapporto con la bicicletta e con la realtà quotidiana. Il ciclismo è infatti uno sport di resistenza, non solo fisica ma anche mentale. Il solo allenamento non è sufficiente. Quando ci si trova in una salita durissima e mancano ancora molti chilometri allo scollinamento, le gambe sembrano legnose, il “carburante” pare stia per esaurirsi. Poi subentra quell’altra parte di noi che ci dice di non mollare se vogliamo raggiungere l’obiettivo. E più vogliamo mollare e più c’è qualcosa che ci “frusta” all’interno per non arrenderci. L’essermi abituato a queste sfide, mi ha certamente aiutato a resistere ai contraccolpi della vita. Il ciclismo è, secondo me, uno di quegli sport in cui nessuno perde. Certo, vincere una gara e alzare una coppa in alto è senza dubbio un momento magico. Ma quando, oltre la competizione o anche semplicemente in un “tappone”, si taglia un traguardo, siamo tutti vincitori. In un certo senso si vince contro le ostilità ambientali e del territorio che spesso si presenta pieno di insidie, in salita o in pendenza, con strade viscide o fangose, sotto il sole o sferzati dalla pioggia… E poi, il piacere di stare insieme la domenica mattina, di fermarsi da qualche parte in un bar gustando nel contempo speciali panorami tra mare e montagna e scambiando opinioni sulle componentistiche delle bici, rendono questo sport sano e adatto per tutte le età.

Purtroppo anche in questa disciplina non mancano note meno positive o drammatiche. Negli ultimi anni si è sentito spesso parlare di doping. Nonostante i severi controlli, continuano gli esperimenti diabolici. Adesso negli ambienti sportivi si vocifera di un “doping tecnologico”, ossia di un presunto motorino posto all’interno del telaio della bici, che ne altera le prestazioni. Una soluzione antietica, una sconfitta, forse più del doping classico. Ma a stendere un velo di mestizia nel mondo del ciclismo sono quelle tragedie in cui qualcuno perde la vita a seguito di una caduta o altro. Impossibile dimenticare la morte di  Wouter Weylandt alla 94^ edizione del giro d’Italia del 2011. Anche nel ciclismo amatoriale non sono infrequenti eventi dolorosi a volte peggiori di quanto accade ai professionisti, perché non dovuti a triste fatalità ma a scarsa cura nell’organizzazione in materia di sicurezza sulle strade. Il 26 Giugno del 2016,un ciclista della nostra zona ha perso la vita mentre era impegnato a disputare una granfondo, nei pressi di Naro, in provincia di Agrigento. In una discesa è avvenuto l’impatto con un auto che saliva dalla corsia opposta. A nulla sono serviti i soccorsi, il ciclista è morto poco dopo e un’altro è finito in ospedale in gravi condizioni. La terribile notizia diffusasi rapidamente, ha gettato nell’angoscia il ciclismo siciliano. Quella che doveva essere una domenica di sport e di sano divertimento, si è trasformata in una tragedia sull’asfalto. La rabbia incontenibile e lo sconforto non accennavano ad arrestarsi. Molti ciclisti si sono resi conto che rischiavano la vita durante le competizioni. E’ inaccettabile infatti che le strade siano aperte al traffico mentre è in corso una gara. E purtroppo regolamenti assurdi non fanno sperare in standard di sicurezza adeguati per il futuro. Proprio per questo alcuni clubs si sono ritirati dal campionato. Anche io mi sono fermato.

In un clima di così grande paura era lecito chiedersi se valesse la pena rischiare. Perché spendere risorse fisiche ed economiche per un pacco gara, quando a casa nostra c’è la famiglia che ci aspetta? Nell’ambiente ciclistico si sente spesso dire che le gare organizzate al nord o comunque fuori dal profondo sud in fatto di sicurezza poggiano su basi più solide. Per verificare, ho abbracciato l’idea di chiudere la stagione con una prestigiosa granfondo internazionale che ogni anno si tiene a Roma nel mese di Ottobre: la Granfondo Campagnolo, giunta alla sua 5^ edizione. Mi sono messo in viaggio sotto una pioggia battente e un cielo nero che rimase tale fino alla sera prima dell’evento. Poi, poche ore prima della partenza la pioggia ci dato  un po’ di tregua e così mi sono preparato per andare in griglia nella famosa via dei Fori Imperiali. Ancora era buio e vedere il Colosseo illuminato mi ha dato un’ emozione forte. La città Eterna accoglieva ciclisti provenienti da tutta Europa. Eravamo più di 5000. La partenza è scattata puntualissima e davvero efficiente si è dimostrato  il servizio di sicurezza lungo tutti i 125 km del percorso. Non ho incrociato un’auto dall’inizio alla fine, mentre un po’ ovunque erano presenti uomini in divisa, soccorritori, volontari, personale per l’assistenza tecnica in caso di problemi alla meccanica, transenne e molti punti di ristoro. L’iscrizione è costata un po’ più del consueto ma ne è valsa la pena. E che dire del fascino dei Castelli, del lago di Albano e dei monumenti romani che si incontravano lungo il tracciato e che sono stati la “ciliegina sulla torta” di questa giornata memorabile? Tutto ciò mi ha reso cosciente di quanto ancora il Sud sia assai indietro sul piano della sicurezza e dell’organizzazione, nonostante la cultura del ciclismo si stia diffondendo in questi ultimi anni, grazie anche al carisma del nostro Vincenzo Nibali. Naturalmente i chilometri da macinare apportano benefici alla salute, ma la vita deve essere tutelata con adeguate misure e con più massicce campagne di sensibilizzazione su questo fronte per fare il salto di qualità.

 

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